Lavoro, lavoro povero e Costituzione

Lavoro, lavoro povero e Costituzione

di Antonio Pileggi

L’11 agosto 2023 a Palazzo Chigi, sede del Potere Esecutivo, la Presidente del Consiglio dei ministri ha incontrato quasi tutti gli esponenti delle forze parlamentari di opposizione per discutere su una questione inerente alla legislazione ordinaria in materia di “lavoro”. Per la precisione, la questione riguarda proposte miranti alla definizione, per legge, del salario minimo dei lavoratori dipendenti. L’incontro si è concluso in modo interlocutorio.  La Presidente del Consiglio, dopo la fine dell’evento, ha rilasciato dichiarazioni usando più volte la locuzione “lavoro povero”.

Occuperebbe molte pagine la descrizione delle differenti opinioni dei decisori politici diffuse con grande clamore dai media. E poiché parecchi dei decisori politici presenti nell’attuale scena politica si sono avvicendati in ruoli governativi, anche più volte negli anni decorsi, ci sarebbero da fare numerose considerazioni incentrate sul perché e sul percome dell’esistenza del “lavoro povero”.

Mi limito a dire che risulta paradossale l’esistenza del fenomeno del “lavoro povero” nella Repubblica che ha scelto di essere “fondata sul lavoro”. Infatti, il primo articolo della Costituzione italiana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, cioè più di 75 anni fa, così recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Inoltre, sono numerose e tutte coerenti col pilastro fondativo del lavoro di cui all’articolo 1 le norme di rilevanza costituzionale in materia di diritto del lavoro, di diritto al lavoro e di “rapporti economici”[1].

Il lavoro povero, il lavoro servile e la schiavitù appartengono ad epoche storiche e a culture politiche, economiche e sociali antecedenti alla Costituzione repubblicana.

Quindi, il fenomeno del lavoro povero desta preoccupazione perché non è stato generato dal destino cinico e baro; perché in Italia le retribuzioni del lavoro dipendente sono ai livelli più bassi in Europa nel mentre l’inflazione è in paurosa crescita; perché viene reso di solare evidenza il crescente impoverimento del sistema Paese; perché è una mina piazzata ai principi e ai valori fondanti dell’ordinamento costituzionale.

Da molti anni l’Italia è finita in una lunga notte nella quale viene sistematicamente tolta la luce della Costituzione. Anche la semplice lettura della Costituzione ci svela che la nostra Carta fa luce ed ha, nelle sue parti precettive e programmatiche, il miglior programma politico, economico e sociale immaginabile per il nostro Paese.

Purtroppo, scelte di maggioranze governative sono state effettuate in difformità, se non in dispregio della Costituzione.  Non sono di poco conto le politiche che, in buona sostanza, riducono il pensiero politico alla mera occupazione dei palazzi del potere. Basta ricordare che sono state architettate normative elettorali riconosciute incostituzionali dalla Consulta grazie ai ricorsi effettuati in via giudiziaria da parte di semplici cittadini. Inoltre, sono ricorrenti “progetti governativi” rivolti a cambiare in modo radicale la Costituzione. Uso la locuzione “progetti governativi” per sottolineare la loro “anomalia” rispetto agli insegnamenti di Calamandrei, che aveva spiegato il perché, in materia di normative costituzionali, i banchi del governo in Parlamento debbano restare vuoti. I compiti dei governi e dei governanti, che nell’insediarsi giurano fedeltà alla Costituzione, non sono quelli di cambiare la Costituzione sulla quale hanno giurato, ma di attuarla. Purtroppo, sono stati molti (di sinistra e di destra) i governi impegnati a cambiare o a tentare di cambiare la Costituzione piuttosto che applicarla rigorosamente nelle parti precettive e attuarla puntualmente nelle parti programmatiche.

Torniamo al lavoro caduto in povertà nonostante sia stato elevato a “fondamento” della Repubblica. La puntuale osservanza della Costituzione, in tutte le sue parti, avrebbe impedito e impedirebbe certamente il formarsi del lavoro povero. Si tenga presente, per fare un solo esempio, che l’art. 36, compreso nel Titolo III, Parte prima (intitolato “Rapporti Economici”), stabilisce in modo chiaro ed inequivocabile che: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Queste parole dell’art. 36 non sono solo chiare ed inequivocabili, sono pietre. E sono pietre anche i principi fondamentali degli articoli 2 e 3 che, per come sono stati formulati, ben riguardano questioni attinenti al “lavoro”: art. 2, per il riferimento ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”; art. 3, per il riferimento ai principi attinenti alla “pari dignità sociale”, nonché al principio del rispetto dell’eguaglianza dei punti di partenza:

“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Al riguardo, c’è da ricordare che la Costituzione, dopo la sua entrata in vigore, è stata attuata (e osservata, nel senso dell’osservanza) per circa tre decenni coincidenti col miracolo economico e col fenomeno denominato, negli anni ‘70, “espansione scolastica”. Tre decenni coincidenti con la “crescita” dell’Italia diventata una delle più avanzate economie del Pianeta. Tutto ciò a pochi anni dalla disastrosa conclusione della Seconda guerra mondiale.

Quanto alle questioni più specifiche del “lavoro”, non bisogna abbandonare all’oblio il fatto che nel 1970 venne alla luce lo storico Statuto dei lavoratori[2]. Lo Statuto che fece scrivere, alla stampa dell’epoca, una considerazione rimasta nella memoria di molti e che qui voglio ricordare. Mi riferisco all’annotazione secondo cui mai, fin dai tempi degli schiavi che costruirono le piramidi, fosse stata varata una legge tanto avanzata a tutela dei lavoratori. Per quanto le considerazioni riportate sui giornali, nelle varie epoche storiche, possano essere “eccessive” o “enfatiche”, sta di fatto che, lo Statuto fu una delle felici e importanti occasioni attuative della Costituzione. Basta leggerlo per avere cognizione del fatto che il legislatore del ‘70 aveva ben presenti i principi e i valori dettati dalla Costituzione repubblicana. Nei decenni successivi lo Statuto del ’70 è stato via via demolito. Ed è subentrata una fase storica caratterizzata dal lavoro precario e dal così detto “lavoro povero” dei tempi attuali.

La precarietà è stata estesa anche al lavoro pubblico attraverso lo spoil system all’italiana introdotto alla fine del secolo scorso prima dal centro-sinistra (Bassanini) e successivamente, con ampliamenti significativi, dal centro-destra. Lo spoil system all’italiana è stato voluto e gradito da entrambi gli schieramenti perché vogliosi di relegare il pubblico impiego in un ruolo ancillare della politica degenerata in mera occupazione dei palazzi del potere. Tutto a detrimento del rispetto dei principi costituzionali inerenti al“buon andamento” e alla “imparzialità dell’amministrazione”, nonché a detrimento dei principi posti a presidio del “servizio esclusivo della Nazione” da parte dei “pubblici impiegati” (artt. 97 e 98).

E c’è di più. La Carta è diventata oggetto di desiderio di stravolgimenti. Mi riferisco alla “scuola di pensiero” del così detto “decisionismo” rivendicato a favore dell’ampliamento dei poteri in capo al potere esecutivo. Questa “scuola di pensiero”, benché bocciata per due volte in due storici referendum (tentata riforma Berlusconi del 2006 e tentata riforma Renzi del 2016), è ancora sostenuta con denominazioni diverse e con il medesimo scopo: “presidenzialismo”, “premierato”, “sindaco d’Italia”, etc.

Sono decenni che in Italia, attraverso il leaderismo e i partiti personali, vengono alimentate tendenze populiste e derive plebiscitarie con l’obiettivo di indebolire il ruolo e la centralità del Parlamento, vero pilastro di ogni ordinamento democratico. Le tendenze plebiscitarie vanno via via collocandosi nella dottrina internazionale rivolta all’indebolimento del Parlamento per favorire processi di “autocratizzazione” e di “arretramento democratico” (autocratization, democratic backsliding). L’Italia ha un campionario eloquente del fenomeno demolitore della centralità del Parlamento e dei principi posti a presidio dell’equilibrio (divisione) dei poteri e dei principi a presidio del pluralismo istituzionale. In siffatto contesto, la “scuola di pensiero” del “decisionismo” viene definita, ineffabilmente, “democrazia decidente”. La “democrazia decidente” che vorrebbe ridurre la partecipazione democratica ad un solo giorno ogni 5 anni: il giorno del voto per scegliere plebiscitariamente l’uomo solo al comando. Sta di fatto che da molti anni l’azione del potere esecutivo continua ad essere svolta a detrimento del ruolo centrale del Parlamento con prevaricazioni di vario genere (decreti-legge e voti di fiducia a raffica, deleghe legislative di varia natura, etc.).

È il caso di sottolineare che la prima parola (e la prima istituzione) della Parte seconda della Costituzione, intitolata “Ordinamento della Repubblica”, è il Parlamento. Il luogo dove si parla e si decide in trasparenza e col rispetto delle regole della democrazia rappresentativa, che è anche rispetto delle minoranze. Per usare un vecchio adagio di Einaudi (conoscere, discutere e deliberare), il Parlamento è il luogo dove si conosce, si discute e si decide.

Sulla base dei brevi cenni su situazioni che hanno poco o niente a che fare con la civiltà giuridica introdotta dalla Costituzione, sono necessarie scelte “ri-generative” di pensiero politico e ispirate ad un alto senso dell’etica pubblica e dell’etica della responsabilità. E sono, altresì, necessarie soluzioni serie in merito alla “questione morale”, che non può essere continuamente snobbata con superficiali e furbesche accuse di “moralismo” allo scopo di giustificare la spregiudicatezza e l’irresponsabilità dell’agire politico.

La presenza di “lavoro povero” a distanza di 75 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, costituisce motivo per riflettere sulle parole chiave della Carta in materia di lavoro. In proposito, ripropongo qui di seguito un mio scritto del 2021 intitolato “Le parole chiave della Costituzione”.[3]

Le parole chiave della Costituzione

“Ciampi, il decimo Presidente della Repubblica italiana e il secondo, dopo Einaudi, con esperienza di lavoro nella Banca d’Italia, dichiarò che la Costituzione era la sua Bibbia laica.” … “La parola, specialmente nella comunicazione politico-istituzionale, svolge una grande funzione pedagogica. Specialmente in Italia, dove la Costituzione non si studia affatto o non si studia abbastanza.

Nel richiamare l’importanza della parola, ad imitazione dello stile comunicativo di Ciampi, viene in mente il prologo del Vangelo di Giovanni: “In principio c’era la parola” … “la parola è la luce che splende nelle tenebre”.

In effetti, le parole scritte nella Costituzione dai Padri e dalle Madri costituenti contengono l’essenza e il fondamento della Repubblica italiana, che è nata dopo la lunga notte della dittatura fascista. Una dittatura preparata e “introdotta” attraverso la fase politica del pre-fascismo, una fase in cui le parole della democrazia liberale perdevano valore e venivano sostituite da illiberali idiomi. In quel periodo il luogo della parola libera e in piena luce, cioè il Parlamento (dove si parla), veniva considerato un bivacco per i manipoli del duce del fascismo.

Ogni parola della Costituzione è di facile comprensione. Fin dal primo comma dell’articolo 1 che così recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Una frase brevissima che contiene cinque parole chiave: Italia, Repubblica, democratica, fondata, lavoro. Sono le parole (cinque quanto le dita di una mano) di una “formula” essenziale per comprendere la natura e il contenuto della Costituzione e per disegnare l’essenza dello Stato e il suo fondamento. Si tratta di una “formula” sulla quale si è realizzata la convergenza delle tre culture politiche ampiamente rappresentate nell’Assemblea costituente: quella liberale, quella cattolica e quella socialista. Ciò è rilevabile in modo incontrovertibile, tra l’altro, dal dibattito svoltosi nell’Assemblea costituente.[4] Significativi sono, tra gli altri, l’intervento e la proposta del liberale Guido Cortese e la proposta del cattolico Fanfani. Quest’ultima proposta prevalse, ma accoglieva, nella sostanza, il contenuto delle proposte di gran parte degli altri costituenti.

Poche parole, ma ognuna ricca di importantissimi e molteplici significati. La locuzione “Repubblica democratica” stabilisce due principi costitutivi dello Stato. Primo: uno Stato che è “cosa pubblica” (dal latino res publĭca). Quindi niente Re o imperatori. Niente duce, o führer, o sultano e relativo sultanato, o leader supremo. Secondo: uno Stato che è improntato al “metodo democratico”, cioè alle scelte del popolo. La parola “democrazia” discende dal greco Dēmokratía, composta da dêmos (popolo) e da kratéō (comando).

Repubblica fondata sul “lavoro”. La parola “lavoro” ha un significato di basilare rilievo ed è stata scelta dai costituenti che hanno condiviso l’idea della nobiltà del lavoro. Infatti la parola “lavoro” ha subito, nel tempo, una “evoluzione” rispetto a quella originaria coniata nella lingua latina. In latino, la parola “labor” aveva il significato di fatica e sofferenza, come quella patita dagli schiavi.

In proposito, giova ricordare le parole di Fanfani che, nel citato dibattito sull’articolo 1 nell’Assemblea costituente, illustrò in modo convincente il significato e il valore dell’articolo 1: “Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale. Quindi, niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma affermazione del dovere d’ogni uomo di essere quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali, sicché la massima espansione di questa comunità popolare potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, nella pienezza del suo essere, il massimo contributo alla prosperità comune. L’espressione «fondata sul lavoro» segna quindi l’impegno, il tema di tutta la nostra Costituzione”.

Sta di fatto che la parola “lavoro” è presente in numerosi articoli della Costituzione.

“Principi Fondamentali”

Art. 1: “Repubblica democratica fondata sul “lavoro”;

Art. 3: parla dei “lavoratori” a proposito di libertà, eguaglianza e partecipazione;

Art. 4: parla di “diritto al lavoro”;

PARTE I – DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI

Titolo III – Rapporti Economici

Art. 35: “La Repubblica tutela il “lavoro” in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei “lavoratori”. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del “lavoro”. Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale, e tutela il “lavoro” italiano all’estero”

Art. 36: parla dei “lavoratori” a proposito di retribuzione, di quantità e qualità del “lavoro”, di ferie retribuite e riposo settimanale;

Art. 37: parla di parità di “lavoro” e di diritti per la donna lavoratrice; di condizione di “lavoro” per assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione; di età minima per il “lavoro” salariato e di tutela del “lavoro” dei minori;

Art. 38: parla dei diritti del cittadino inabile al “lavoro” e dei diritti e delle esigenze di vita dei “lavoratori” in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione volontaria;

Art. 39: parla di contratti collettivi di “lavoro” e di sindacati;

Art. 43: parla di comunità di “lavoratori” per particolari interventi pubblici che abbiano preminente interesse generale;

Art. 46: parla di elevazione economica e sociale del “lavoro”  … in armonia con le esigenze della produzione e del diritto dei “lavoratori” a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende;

Titolo IV – Rapporti politici

Art. 51: parla di conservazione del posto di “lavoro” per chi sia chiamato a svolgere funzioni pubbliche elettive;

Parte II – Ordinamento della Repubblica

Art. 99: parla della composizione e dei compiti del Consiglio nazionale dell’economia e del “lavoro”.

Discutere “del tutto e della parte” e delle parole chiave in materia di norme costituzionali aiuta a comprendere la natura, il contenuto e la portata della Costituzione, che è la Legge delle leggi. Ma nella semplice elencazione delle norme non si può non tenere conto che gran parte della normativa costituzionale ha natura programmatica. Molte delle norme costituzionali sono inattuate e sono rimaste scritte sulla carta. Per alcune decine di anni, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, c’è stata una volontà politica rivolta ad attuarla e a ricostruire il Paese. Poi si è fatta strada l’idea di cambiare la Costituzione e il pensiero politico prevalente (e dominante) si è concentrato sul come conquistare e sul come appropriarsi dei palazzi del potere.

La conoscenza della Costituzione, a partire dalla scuola, costituisce il presupposto necessario per mobilitare le coscienze, per favorire la cittadinanza attiva e per riscoprire il valore dello spirito costituente che fu la stella polare nelle decisioni e nelle scelte dei Padri e delle Madri costituenti.…”

Considerazioni conclusive

Le riflessioni, che prendono come principali punti di riferimento le parole chiave della Costituzione e che richiamano questioni riferibili all’etica pubblica, all’etica della responsabilità e alla “questione morale”, consentono di concludere questo scritto riportando, testualmente, l’art. 54 e le ultime righe della Carta.

Art. 54: Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.

Ultime parole della Costituzione: “La Costituzione dovrà essere fedelmente osservata come Legge fondamentale della Repubblica da tutti i cittadini e dagli organi dello Stato.”

Specialmente i giovani devono tenere ben presente che alle ultime righe della Costituzione seguono le firme di Enrico De Nicola, Capo provvisorio dello Stato, Umberto Terracini, Presidente dell’Assemblea costituente, De Gasperi Alcide, Presidente del Consiglio dei ministri, Giuseppe Grassi, Guardasigilli. È appena il caso di ricordare l’area culturale e politica di riferimento delle personalità che hanno firmato la Carta: De Nicola e Grassi di area liberale, Terracini di area socialista e De Gasperi di area cattolica. Oso mettere in evidenza questi soggetti e la loro area politica di appartenenza per significare che la loro storia personale e i loro comportamenti, peraltro “consacrati” anche nei verbali dell’Assemblea costituente, sono esemplari. Specialmente quando ci siano da affrontare i temi dell’etica pubblica e della “questione morale”. Sono, questi ultimi, i temi che richiedono: a) credibilità e senso dello Stato da parte dei “chiamati” a svolgere funzioni pubbliche; b) netta distinzione tra funzioni pubbliche, da svolgere nell’interesse generale del Paese, e funzioni di militanza o guida del partito politico di appartenenza (partito che è un’organizzazione di parte)[5].

Le riflessioni fin qui svolte prendono le mosse dalla questione del lavoro e non possono non avere, tra passato, presente e futuro, lo sguardo rivolto allo sviluppo tecnologico e alla così detta intelligenza artificiale che certamente avranno come risultato la consistente riduzione di posti di lavoro umano. La riduzione di posti di lavoro apre scenari nuovi che attengono, principalmente, alla qualità e alla quantità del lavoro. La Costituzione del 1948, che è umano centrica, contiene principi e valori idonei ad orientare le giovani generazioni presenti e future nella soluzione delle problematiche riguardanti il lavoro umano.

Al riguardo, è da ricordare uno dei più importanti articoli della Costituzione: l’articolo 2, che non statuisce ex novo diritti, ma “riconosce”, in quanto preesistenti a qualsiasi normativa generata dai legislatori di ogni tempo, i diritti inviolabili dell’uomo:

“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.”

Questo articolo è stato pubblicato su pensalibero.it: https://www.pensalibero.it/lavoro-lavoro-povero-e-costituzione/


[1] La locuzione “rapporti economici” è qui usata per richiamare con precisione l’intitolazione (Titolo III) della Parte prima della Costituzione che comprende i 13 articoli che vanno dal 35 al 47 (tutela del lavoro, esistenza libera e dignitosa, diritti di assistenza sociale, etc. etc.);

[2] Legge 20 Maggio 1970, n. 300;

[3] Le parole chiave della Costituzione, Antonio Pileggi, Rivista trimestrale Libro Aperto, n. 113, Ottobre/Dicembre 2021;

[4]  Assemblea Costituente, seduta pomeridiana di sabato 22 marzo 1947.

[5] Le considerazioni sulla soluzione della “questione morale” qui espresse in estrema sintesi, sono tratte dall’analisi e dagli insegnamenti presenti nel libro di Marco Minghetti intitolato “I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione”. Il volume è del 1881 per i tipi di Nicola Zanichelli, Bologna.