Dal Risorgimento a Cittadinanza e Costituzione, sul filo della memoria

di Luciano Corradini

Premessa, con un cenno al Risorgimento e alle radici spirituali dell’unità d’Italia

Ho scelto un titolo un po’ strano per questo intervento, che ripercorre alcuni tratti di vicende vissute nella scuola e per la scuola, con citazione di alcuni documenti rappresentativi di ciò che ho visto e di ciò che mi sono proposto di fare nel cinquantennio che sta alle nostre spalle.

Prima di ricostruire per sommi capi le vicende della storia della scuola così come le ho vissute, vorrei ricordare una circostanza vissuta, col qui presente Roberto Maragliano e con Giuseppe Bertagna, in occasione di un convegno sul tempo pieno e sulle relative “idee di scuola”, coordinato da Elio Damiano, ad Adro, in provincia di Brescia. Adro, com’è noto, è paese della Franciacorta passato agli onori della cronaca, perché l’attuale sindaco, Oscar Lancini, ha dedicato una scuola, ricoperta di immagini verdi del Sole delle Alpi, in realtà simbolo della  Lega Nord,  a Gianfranco Miglio, professore teorico del federalismo … e non  ai fratelli Enrico ed Emilio Dandolo, eroi del Risorgimento, che per di più hanno donato al Comune tutto il loro patrimonio, compreso il Palazzo comunale. Damiano ha registrato e discusso le nostre idee di scuola, alla luce di due prospettive, quella della descolarizzazione e quella della riscolarizzazione. Io sono stato messo tra i descolarizza tori, a motivo del mio interesse per le prospettive trasversali alle discipline scolastiche, e cioè per le “educazioni”, mentre Maragliano è stato collocato fra i riscolarizzatori, per il suo impegno a difesa dell’istruzione, e in particolare dei “saperi”, come risulta dal documento elaborato dalla “Commissione dei saggi” da lui presieduta al tempo del ministro Berlinguer. Non riprendo in questa sede la querelle, se non per ricordare che a mio parere non si tratta di posizioni contraddittorie, ma “conviventi” nella mia idea di scuola: se mai si tratta di riscolarizzare, ossia di salvare la scuola dall’insignificanza e dal degrado, liberandola da un eccessivo scolasticismo, per responsabilizzarla nei riguardi della vita dei ragazzi e della società.

Note

1) Intervento Corradini in 150 anni di scuola italiana per l’unità, Ed UCIIM AIMC, Roma 2011, pp. 91-102

Lasciando agli storici il compito di identificare le idee di scuola e i contributi che sono stati dati da ministri, politici, dirigenti, pedagogisti, docenti di diverse discipline, rappresentanti di associazioni professionali e sindacali, e in genere uomini e donne di cultura (per questo segnalo la recente monumentale ricerca di Nicola d’Amico, Storia e storie della scuola italiana, dalle origini ai giorni nostri, Zanichelli, Bologna, 2010), mi limito a ricordare quello che ho cercato di fare nella mia vicenda d’insegnante e nei diversi ruoli che ho ricoperto.

Di buona parte di queste vicende ho lasciato traccia in un diario che va dal 1961 al 1991, intitolato A noi è andata bene. Famiglia, scuola, università e società in un diario trentennale (Città Aperta. Troina (EN), 2008). Del periodo di presidenza dell’UCIIM ho dato conto nel volume Educare nella scuola nella prospettiva dell’UCIIM, UCIIM-AIMC, Armando, Roma 2006. Una ricostruzione della mia vicenda biografica relativa alla vita di famiglia, all’insegnamento, all’impegno associativo e a quello istituzionale è stata fatta di recente nel sito che mi riguarda, costruitomi dal giovane collega Luigi Bruno di Polistena. Vi si trovano anche interviste, filmati, bibliografia, libri e articoli scaricabili. Allestire degli “scaffali telematici” è un modo nuovo per ospitare nella propria casa e nella propria biblioteca coloro che volessero leggere cose ormai scomparse o rivedere volti e riascoltare voci del passato. E’ come continuare a regalare libri, articoli, volantini e conversazioni alle generazioni che verranno, quando i propri libri saranno difficilmente rintracciabili in qualche biblioteca pubblica, in qualche cantina o destinati a sorreggere un tavolo che abbia una gamba troppo corta.

2) Ho sviluppato questa tesi nel contributo  “Riscolarizzare per educare”, in  E.Damiano (a cura di), Idee di scuola a confronto. Contributo alla storia del riformismo scolastico, Armando, Roma, 2003, pp. 177-204. Ricordo che sono figlio di una maestra, che mi ha portato in classe a quattro anni. Credo di non essere ancora uscito, almeno col cuore e con la fantasia, da quel mondo incantato, ma anche severo. Ricordare significa appunto rivivere col cuore, saper ripensare a ciò che vale, a ciò che vale la pena di ricordare, come cercherò di dimostrare.

Dal Risorgimento di Mazzini e dei Dandolo alle brume della “Padania”

“mio fratello non contava allora 22 anni,  gracile della persona egli aveva un’anima così bella, un criterio si sano e una così ammirabile costanza e sanità di principi, che a quanti lo conoscevano era oggetto di stima e di affetto vivissimo”. Emilio conclude in questo modo il suo libro I  volontari e i bersaglieri lombardi: “Così finirono i bersaglieri lombardi, raro esempio di disciplina, di coraggio e di sventura, benedetti sempre dalle popolazioni che ebbero contatti con loro, rispettati dai nemici nella pugna e dopo, dopo lasciati tanti pericoli e tante fatiche, nel più profondo e nefando abbandono”. Nelle conclusioni delle sue memorie scrive: “Solo mi sostiene, nella sconsolata vita che mi avanza, la ferma fiducia che Iddio non vorrà inutilmente aver gettato tanto sangue e rovinate tante esistenze, e che preghiere di quei martiri che sono lassù, ridoneranno una volta a questa nostra Italia sventurata, senno, dignità e concordia, condizioni indispensabili a ottenere  un meno infausto avvenire.

I ragazzi di Adro, a stare al loro sindaco attuale, rischiano di conoscere la storia dei Cimbri e dei Teutoni, ma non quella di chi, ancora prima del 1961, lottò perché potesse farsi l’unità d’Italia, data da cui partiamo per celebrare i 150 anni della nostra scuola. Mia madre ci parlava, a scuola, degli eroi del Risorgimento. Ho ritrovato, in una citazione di Giorgio Napolitano, una frase di Mazzini, pronunciata nel 1845, che dipinge bene i discorsi dei maestri della mia infanzia: “Noi non abbiamo una bandiera nostra, non nome politico, non voce tra le Nazioni d’Europa; non abbiamo centro comune né patto comune, né comune mercato. Siamo smembrati in otto stati, indipendenti l’uno dall’altro… Otto linee doganali…dividono i nostri interessi materiali, inceppano il nostro progresso…otto sistemi diversi di monetazione, di pesi e di misure, di legislazione civile, commerciale e penale, di ordinamento amministrativo, ci fanno come stranieri gli uni agli altri… Stati governati dispoticamente, uno dei quali – contenente quasi un quarto della popolazione italiana-, appartiene allo straniero, all’Austria… Deve esistere una nazione italiana”.

Non si tratta di fare della retorica patirottarda, ma di non dimenticare voci e testimonianze di un passato che ci aiuta a guardare a un futuro comune. Ricordare il passato è come guardare nello specchietto retrovisore dell’automobile. Lancerò qualche occhiata alle vicende che ho vissuto come insegnante.

Gli anni ’60, nell’UCIIM di Reggio Emilia e nei convegni della DC (Firenze) e della Chiesa di  Roma

Comincio col periodo reggiano, quello dell’inizio degli anni ’60. Allora ho incontrato l’UCIIM sezionale, provinciale e nazionale. O meglio ho incontrato persone con le quali ho potuto imparare sul piano culturale, professionale e spirituale e partecipare come docente membro di un’associazione alle vicende della scuola italiana. Dal 1964 ho frequentato e organizzato corsi di perfezionamento didattico, curando anche le dispense di un corso intitolato Linee di didattica generale, tematica che solo in anni più recenti è diventata una disciplina accademica. Ho partecipato a riunioni, dibattiti, sperimentazioni, in classe e nella scuola, occupandomi anche dell’incipiente associazionismo dei genitori e degli studenti.

Nel 1967 bolliva in pentola il problema della rappresentanza degli studenti nella scuola, fra molti contrasti e dibattiti. I presidi seguivano la legge, che non riconosceva gli studenti come soggetti  associabili, mentre il sindaco offriva la Sala del Tricolore alle riunioni di una Consulta giovanile. Allora scrivemmo un libretto, che fu consegnato al ministro Luigi Gui, in visita a Reggio il 3 giugno di quell’anno. Disse che era “profondamente saggio”. Il titolo era Gli organismi rappresentativi studenteschi e la scuola. Nosengo me ne chiese una cinquantina di copie e da allora mi considerò referente per i problemi giovanili. Cito la prima frase: “Uno studente seduto in un banco di una certa classe, che ascolta la lezione di un insegnante, per imparare il programma che gli viene somministrato, per esporlo quando sarà interrogato e per prendersi un diploma alla fine degli studi, realizza non  la scuola, ma una sua deformazione individualistica e nozionistica”.

Sono le premesse di una stagione ricca di creatività e di confusione, che ebbe un primo approdo legislativo con la legge delega 477/1973 e con i decreti delegati del 31 maggio 1974. Proprio nell’autunno del 1974 si tenne a Firenze un convegno nazionale promosso dalla DC, cui parteciparono millecinquecento persone, sul tema un po’ enfatico La scuola è la società. Gli anni ’70. Questo è anche il titolo del grosso volume di atti, che fu pubblicato a Roma dalle Edizioni Cinque Lune, il 1976.

Nell’ambito di questo convegno toccò a me la relazione, nel gruppo di lavoro preseduto da Maria Badaloni, dedicato a “Democrazia nella scuola e pluralismo scolastico”. Nell’introduzione ricostruivo in questo modo il senso di quell’epoca e di quella responsabilità: “Alla gratitudine per essere stato invitato a tenere questa relazione, vorrei aggiungere un altro pensiero di riconoscimento per l’on. Badaloni, presidente della commissione dei 36, per il ministro Franco Maria Malfatti e per l’on.Vittorio Cervone, animatore di questo convegno.

Se oggi possiamo parlare di comunità scolastica in termini che non siano soltanto di progettualità pedagogica e di buona volontà personale, lo dobbiamo in modo particolare a loro, per la tenacia con cui hanno condotto in porto l’operazione della legge e dei decreti, superando le resistenze con cui oppositori e scettici, miravamo ad insabbiare questi provvedimenti.

 

Ma il riconoscimento a questi protagonisti che ora partecipano ai nostri lavori, non deve farci dimenticare che la lunga e difficile vicenda politica conclusasi con il varo dei decreti da parte della Corte dei Conti, ha un’origine culturale  lontana, che si radica su un consenso sociale che, dalla Resistenza in qua, è venuto dilatandosi progressivamente, sicché la nuova normativa, a cui hanno contribuito forze culturale, sindacali,  politiche, sociali di un vastissimo schieramento, non è frutto dalla saggezza o della furbizia di pochissime persone o della forza di un solo partito, ma appartiene  veramente alla società italiana nel suo complesso. Una volta tanto, per felice congiuntura degli astri, si è determinata quella sintonia tra forze sociali e politiche che rimette in moto il meccanismo della speranza, perché conferma che ha ancora senso lavorare alla base e anticipare nel pensiero e nel costume individuale e di gruppo, ciò che poi legge  è chiamata a sanzionare e generalizzare”.

Era questa la visione che avevamo della scuola e dell’associazionismo professionale: un’esperienza di vita, in cui si affrontano problemi, partecipando in qualche modo al processo di produzione e di messa in pratica di nuove leggi.

“Per quanto mi riguarda, aggiungevo, non posso dimenticare che l’UCIIM ha affrontato fin dal suo sorgere il tema della scuola come comunità, le cui componenti essenziali, studenti, insegnanti e  genitori, sono state invitate a partecipare ad un convegno nazionale UCIIM tenutasi a Roma nel 1953. E  ricordo con piacere che i vari corsi e convegni, soprattutto quelli di Camaldoli, in cui di anno in anno si metteva a punto con sempre maggiore chiarezza il disegno, il progetto di scuola comunitaria. Certo eravamo minoranze, come minoranze erano i gruppi di impegno di altri sindacati, movimenti, associazioni d’insegnanti, studenti e genitori che venivano affacciandosi progressivamente sulla scena. La nostra proposta sembrava non dovesse incontrare molta popolarità tra coloro che d’estate frequentavano le spiagge anziché i monasteri, perché proponevano di superare le difficoltà, arricchendo e complicando il modello di scuola, anziché riducendo i punti di frizione, come suggerivano i rinunciatari. Eppure la realtà ci ha dato ragione. La scuola comunitaria è certo frutto di istanze ideali e di coerenza pedagogica, come vedremo subito,  ma è anche frutto di pressioni sociali obiettive, a cui le forze politiche di maggioranza hanno saputo alla fine dare una risposta positiva affrontando insieme i rischi che questa scelta comporta.

Chiedo scusa della lunga citazione, ma mi pare d’aver colto allora il senso di un momento di svolta della storia della nostra scuola, riconoscendo e valorizzando anche il contributo dell’UCIIM, accanto alla mitica Badaloni, presidente e fondatrice dell’AIMC. Erano anche momenti drammatici. Basti pensare che a Reggio Emilia dai primi anni ’70 era attivo il cosiddetto “gruppo dell’appartamento”, con Roberto Ognibene, Prospero Gallinari, Alberto Franceschini, nucleo del terrorismo armato delle BR. E la pagina reggiana dell’Unità scriveva che io ero non solo anticomunista, ma anche antistorico. Naturalmente qualcuno, come lo storico Sandro Spreafico, poi mio successore alla presidenza UCIIM di Reggio, pensava il contrario, vedendomi come disponibile “al dialogo più aperto e avventuroso con l’intellighenzia non cattolica” .

Ricordo ancora due episodi di quel periodo: il primo riguarda un convegno promosso a Roma dal card. Poletti sulla partecipazione scolastica, presieduto da Vittorio Bachelet. Fui invitato come relatore, con Paola Gaiotti e padre Mongillo. La signora Norina Moro, che collaborava col Vicariato, mi fece battere a macchina il testo della relazione, che però arrivò all’Università Urbaniana, sede del convegno, quando io avevo già dovuto arrangiarmi a parlare a braccio. Il clima era di grande intensità emotiva, per la diffusa convinzione di partecipare ad una svolta storica, secondo lo spirito del Concilio. Il secondo episodio, che mi è rimasto in mente, riguarda un breve viaggio in auto con Luigi Macario, di lì a qualche anno segretario generale della CISL, che mi disse, con voce alterata: per la scuola, o i decreti delegati o il caos! L’Unità il giorno seguente titolò a tutta pagina: o i decreti o il caos.

Teoria “sismica” della scuola, dal ’68 in poi

Questi episodi mi suggeriscono una lettura di quel periodo, che allora cominciò confusamente a farsi strada. Il ’68 è stato una sorta di terremoto, che ha vivacizzato, ma anche lesionato il metaforico edificio della pubblica istruzione. Il Rapporto Faure dell’UNESCO, uscito nel 1972 a Parigi, col titolo arioso Apprendre à ètre, aveva indicato due grandi prospettive, per uscire senza troppi danni dall’epicentro del conflitto scolastico e sociale dell’epoca: da un lato la comunità educativa, dall’altro l’educazione permanente. Anche i decreti delegati assumono la duplice prospettiva “antisismica” del rafforzamento della base, con la partecipazione delle famiglie e delle forze sociali (dpr n. 416), e della flessibilizzazione dell’edificio con la sperimentazione (dpr n.419) La partecipazione serviva insieme ad aprire la scuola al mondo socioeducativo e a garantirle consenso; la sperimentazione  ad aprirla al mercato e alle mutevoli esigenze del mondo delle professioni e a rispondere ad una più vasta gamma di bisogni formativi da parte dei giovani.

In terzo luogo si introdusse, con un altro decreto (dpr n. 417), una nuova figura di docente, la cui libertà d’insegnamento “è diretta a promuovere,  attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni”. Si precisava anche che “la funzione docente è intesa come esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura, di contributo alla elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale processo e alla formazione umana e critica della loro personalità”.

Dal riflusso al lungo assestamento

No, dunque alla rivoluzione, sì alle riforme, affidate anzitutto alla responsabilità di docenti, studenti, genitori e, a livello distrettuale, alle forze sociali. Ho cercato di sintetizzare la problematica di quella stagione in un libro intitolato Educare nella scuola, che ha per sottotitolo Cultura, comunità, curricolo (La Scuola, Brescia 1983). Il curricolo, cioè il programma, inteso come frutto di programmazione responsabile, finalizzata al raggiungimento di obiettivi educativi e didattici, viene inteso come la risultante di due linee, quella verticale, della cultura, e quella orizzontale, della comunità.

Si prevedevano, nello stesso dpr. n. 419, anche gli IRRSAE, istituti regionali di ricerca sperimentazione aggiornamento educativi, che dovevano essere snodi tra scuole e amministrazione, fra scuola e università, fra momento scientifico-tecnico e momento rappresentativo, a servizio delle scuole. Le sperimentazioni, promosse da singole scuole e verificate dagli IRRSAE e le sperimentazioni “assistite” dal Ministero, sia quelle disciplinari, sia quelle globali promosse dalla Commissione Brocca, hanno tenuto il campo fra gli anni ’80 e gli anni ’90, poi sono state sostituite dalla riforma della secondaria superiore (la chiamerei Moratti-Fioroni-Gelmini), che ha portato a compimento, senza particolare pathos, un’impresa che aveva appassionato e inquietato la scuola fin dall’indomani della riforma della scuola media, nel 1963. Con tutti i suoi limiti, la riforma della scuola secondaria non è più un miraggio, ma cresce sul terreno solido della legge, non sulle decine di progetti naufragati in Parlamento.

Comparsi sulla scena gli spauracchi della droga, dell’AIDS, del razzismo, del bullismo, negli anni ’70 e ‘80 si cercò di farvi fronte sul piano scolastico con l’educazione alla salute (legge 162 e dpr. 309/1990) e con altre “educazioni”, interculturale, ambientale, alla pace, allo sviluppo… Il Ministero cercò di dare organicità a queste “educazioni”, con i Progetti Giovani 93, Ragazzi 2000, Genitori, ossia con progetti trasversali che prepararono la strada al PEI (progetto educativo d’istituto, poi diventato POF) e che fecero sentire più acutamente il bisogno di autonomia per le singole scuole.

Caelum, non animum mutant nautae

Le costellazioni “valoriali” degli anni ’70 e ’80 stavano però per tramontare nei cieli di una società sempre più individualistica, impegnata nella competizione internazionale e invecchiata. Il titolo di un libro di Norberto Bottani, La ricreazione è finita  (Il Mulino, 1989), dette l’impressione che tutta la problematica educativa fosse al tramonto, sostituita da quella istruttiva. Come se l’educazione fosse una specie di ricreazione, o, come disse ironizzando il ministro Berlinguer, una sorta di intrattenimento da Club Méditerranée. Lo stesso Berlinguer però si ricredette, dicendo che, se non si educa, non si può nemmeno istruire.

Finita la stagione dei “terremoti” di tipo sociale, anche per l’esasperazione contestativa prodotta dal terrorismo degli “anni di piombo”, culminati con l’assassinio di Aldo Moro, nella “Notte della Repubblica”, che rese odiose le idee rivoluzionarie, lentamente si assestarono e poi entrarono in crisi la logica del tempo pieno, della partecipazione, della gestione sociale, dell’integrazione, della valutazione personalizzata, della sperimentazione. Dopo il cosiddetto “riflusso”i è verificata una sorta di bassa marea di tipo ideologico, ma anche, ideale, etico, politico, motivazionale, economico e finanziario, che ha fatto apparire troppo costosa l’energia necessaria per far funzionare la scuola come “comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica” (dpr 416).

Anche i distretti scolastici e gli IRRSAE, faticosamente emersi sul piano istituzionale alla fine degli anni ’70, sono vissuti con alterne fortune negli anni ’80 e ’90 e sono stati poi lasciati lentamente morire o ridimensionati negli anni 2000. Degli IRRSAE, poi ridotti a IRRE,  si è decisa la chiusura per il 2012. Resteranno in piedi l’INVALSI, per la valutazione, l’INDIRE, per la documentazione, l’Ispettorato per la promozione. C’è una sorta di deterritorializzazione dei servizi, in corrispondenza con la valorizzazione dell’infotelematica. La sempre più grave crisi finanziaria induce a tagli dolorosi, che in passato si sarebbero ritenuti inaccettabili. Intendiamoci, non tutto può essere giudicato con accenti funerei. La semplificazione e la riduzione degli sprechi sono in sé realistici, quando non si taglino rami vitali della scuola, come in parte si è fatto e si sta facendo con alcuni provvedimenti.

Il curioso è che l’autonomia scolastica, sogno degli anni ’70, diventa legge, addirittura costituzionale, proprio durante questa bassa marea, nel 2000, senza il vento in poppa della partecipazione. La stessa cosa succede per l’educazione civica, che dagli anni ’60 sognavamo di trovare in una legge dello stato: questa è arrivata nel 2008, con Cittadinanza e Costituzione, prevista dalla legge 169, quando però gli spazi curricolari, per i docenti e per gli studenti, si andavano riducendo, soprattutto ma non solo per ragioni finanziarie.

Dal dilatarsi degli orizzonti al restringersi delle prospettive

Ricordo che Aldo Visalberghi negli anni ’90 propose un nuovo nome per l’educazione civica: educazione alla pace e allo sviluppo (EPS), perché questi problemi-valori diventavano gli orizzonti della convivenza umana. A dire il vero, queste prospettive non erano del tutto estranee ai programmi di educazione civica della scuola media, in particolare in quelli del 1979; e perfino a quelli del decreto Moro del 1958, di cui molti ignorano il testo. Tuttavia, per un complesso di ragioni che non è il caso di ricordare qui, si è riconosciuta l’opportunità di ripensare, approfondire, aggiornare, rilanciare la materia, per motivare docenti e studenti a capire il mondo complesso in cui viviamo e a trovarci delle ragioni e degli strumenti per vivere una cittadinanza a raggio variabile, come si dice oggi.

Pace, sviluppo, salute, ambiente, dialogo fra le culture hanno assunto ruoli sempre più importanti a livello internazionale. Basti pensare alla Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963) e alla Populorum progressio di Paolo VI (1967), senza dimenticare don Milani, che nella Lettera ai giudici (1965)  distingueva il ruolo del giudice, che giudica in base a leggi già fatte, e l’insegnante, che legge negli occhi dei ragazzi le leggi ancora da fare. Evidentemente molti ragazzi oggi hanno la congiuntivite, se non vogliamo dire che gli insegnanti hanno occhiali tropo scuri per potervi leggere il futuro.  Tra i molti significativi documenti internazionali, ho citato il Rapporto Faure, che è stato una specie di bibbia per la mia generazione.

Vorrei riprendere, concludendo questa prima parte del mio intervento, una citazione di questo Rapporto, che ha l’andamento di un volo pindarico. Erano ben note a Faure e ai suoi collaboratori, le obiezioni fatte da più parti al dilatarsi della scuola, senza che contemporaneamente aumentasse la sua produttività educativa ed economica. Essi riconoscono che la scuola funziona male in tutto il mondo e non risponde adeguatamente alle esigenze di nessuno, né dei genitori, né degli studenti, né degli amministratori, dei politici, degli industriali e della classe operaia Che fare allora? La risposta a questa domanda giunge a dir poco inattesa, se si pensa che a formularla non è stata una pia associazione di insegnanti, ma un gruppo scelto di politici, economisti, sociologi, pedagogisti. Eccola: “Se il vecchio bagaglio di conoscenze non basta più, non è giunto il momento di pretendere ben altro dai sistemi scolastici? E che cosa? Insegnare a vivere, insegnare a imparare in modo da poter acquisire nuove conoscenze durante la vita, insegnare a pensare in modo libero e critico, insegnare ad amare il mondo e a renderlo più umano, insegnare a realizzarsi nel lavoro”. La risposta ha qualcosa di paradossale e di utopico.

Ma proprio per questo, nonostante i cambiamenti intervenuti nel tempo, non ha perduto la sua attualità. Quelle espressioni andrebbero meditate e approfondite, anche per evitare di concludere, fra ironia e senso di sconfitta, con l’invito ( o con la descrizione di un fatto?) della collega Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo, titolo di un suo libro, uscito di recente presso Guanda.  Il sottotitolo precisa Saggio sul diritto di non studiare. Forse voleva dire: saggio sul diritto di lasciare gli studenti nell’ignoranza. E’ umanamente comprensibile, in determinate circostanze, che alcuni  insegnanti si arrendano e che pensino che la scuola debba articolarsi come i reparti di un supermercato, per rispondere alle diverse esigenze dei clienti. Ma questo non fa bene né agli studenti, né ai docenti. Dalle difficoltà della scuola, come ha insegnato Faure, non si esce con il segno meno, ma con il segno più. Il che non significa che i problemi organizzativi si possano risolvere una volta per tutte.

Il lungo viaggio dall’educazione civica alla cultura costituzionale

Vorrei, in questo secondo intervento, raccontarvi la storia di un’obiettiva sconfitta di uno che non si sente sconfitto. Avendo lavorato al Ministero nell’ultimo quindicennio in quattro diverse commissioni sull’educazione civica, coi ministri Lombardi, Moratti, Fioroni, Gelmini, ho fatto in proposito l’esperienza di Penelope, anche senza aver lavorato di notte a disfare la tela. A questa funzione hanno pensato altri, e io ho dovuto svolgere il ruolo dei Proci, ma con poca fortuna, perché stava tornando Ulisse a riportare “l’ordine”. E tuttavia non mi sembra che questo lavoro antipenelopeo sia stato del tutto inutile e che la Costituzione sia stata “cacciata” dalla scuola, come ha scritto di recente Repubblica; anche se indubbiamente la tenace minoranza che ha lavorato nelle scuole e al Ministero non è riuscita a trovarle uno spazio curricolare distinto dalle materie “forti”.

Sarebbe importante che se ne tenesse conto nei curricoli universitari dei futuri docenti, per togliere alibi a chi dice, con qualche ragione, che gli insegnati non hanno studiato diritto costituzionale. E tuttavia gli insegnanti di storia si abilitavano anche in educazione civica: e io l’ho insegnata per tre anni all’ITIS di Reggio Emilia.

Questa mattina Giancarlo Lombardi, passando rapidamente in rassegna la sua attività di Ministro (1995-1996), ha detto che sull’educazione civica avrei parlato io, che avevo avuto da lui la delega su questa materia.

Una lettera al Ministro Lombardi

Lo farò utilizzando una lettera che gli inviai il 14 gennaio 1996, per illustrargli la genesi e lo stato dei lavori che si stavano svolgendo in proposito e per difendere la continuità del lavoro fra la prima e la seconda commissione, affidate alla mia presidenza, con due passaggi al Consiglio nazionale della PI, di cui ero vicepresidente. Il Ministro aveva deciso di rinunciare a ripresentare, emendato, il documento dal titolo Nuove dimensioni formative, educazione civica e cultura costituzionale, perché gli pareva troppo lungo, mentre il CNPI l’aspettava, dopo averlo esaminato con proposte di lievi modifiche. Io cercai di convincerlo a procedere in modo coerente e produttivo, in modo da giungere alla conclusione del processo avviato, con due risultati: un decreto che varasse nuovi programmi di “educazione civica e cultura costituzionale”, dalla materna alla secondaria superiore, a cui stava lavorando una seconda commissione “tecnica”, con alcuni ispettori e dirigenti ministeriali particolarmente bravi ed esperti, come Luciano Amatucci, Sergio Scala, Elio Tortora; e una direttiva che veicolasse nelle scuole il citato documento, al quale si era alacremente lavorato:

 

 “Caro Giancarlo (…) il CNPI aveva scritto, nella sua pronuncia del 23/02/95, da te resa nota attraverso la circolare 90/1995: ‘Una rivisitazione organica e sintetica dei valori, delle dimensioni, dei diritti e dei doveri emersi nella vita culturale di questo ampio periodo di storia recente, può consentire una sostanziale rielaborazione del decreto 13/6/58, n.585 (Aldo Moro), dedicato all’educazione civica. Il nuovo testo potrebbe svolgere il ruolo di Premessa Generale ai programmi scolastici di ogni ordine e grado’.

 

Nel decreto del 23.3.1995 hai affidato perciò alla commissione da me presieduta una duplice consegna:1) collocare l’educazione civica entro un quadro pedagogico-istituzionale che attualizzi e vitalizzi questo insegnamento, anche per fornire a docenti studenti e genitori un’aggiornata e utile chiave di lettura della ‘macchina scolastica’ del nostro tempo; 2) dare rilievo curricolare alla cultura costituzionale, riconoscendo nella Costituzione sia un documento da studiare, sia la fonte di legittimazione più alta e condivisa della proposta educativa e culturale della scuola.

 

La commissione può aver lavorato bene o male: per questo è giusto sentire di nuovo il parere del CNPI e affidare la decisione finale a te, che sei il committente e in ultima analisi il responsabile politico della questione. Il CNPI però si attende di ricevere il documento nella sua interezza, dopo che è stato a lungo studiato ed emendato, a partire da un testo di commissione a cui hanno lavorato persone come Zamagni, Balboni, Pajno e Papisca…. Lasciami aggiungere che, se potrai firmare con Salvini (allora ministro dell’Università) i decreti di cui alla legge 341, i futuri docenti avranno in questo documento ministeriale un materiale non improvvisato e non facilmente reperibile, sul quale riflettere, per la loro formazione generale. Come CNPI ci eravamo impegnati, fin dal 1990, a produrre un documento che avesse valore di codice deontologico per i docenti. Abbiamo varato solo una Carta dei diritti degli studenti, ma col clima attuale dispero che si possa elaborare un tale codice, che pure è tanto importante per i futuri docenti.

 

Non sono riuscito neppure a far accettare un semestre di deontologia professionale nel corso di laurea per maestri. Ecco perché è importante che esca un documento che rintracci nella Costituzione lo spessore etico e professionale che le semplici contingenti vicende del contratto non consentono di assicurare. Se dovessi campare qualche anno e dedicarmi alla formazione dei futuri docenti in università, non riuscirei a perdonarmi di non essere stato capace di far valere, presso un ministro amico e compagno di viaggio, le ragioni ideali e professionali che mi hanno sorretto e guidato in questi anni…. Per chi non crede in nulla, i decreti che parlano di valori sono pezzi di carta o fumoserie: ma per chi cerca di capire qualcosa dell’istituzione e di giocarvi la propria vita, trovare un testo ufficiale che dica certe cose è motivo di conforto e di aiuto a far passare, nel dialogo, quelle proposte senza le quali la scuola o si spacca, o si affloscia. … Come lettera di trasmissione, questo scritto è un po’ lungo; ma come sfogo dell’anima, più breve di così non sono riuscito a farlo. Del che ti chiedo scusa, ringraziandoti per avermi ascoltato”. Luciano.

Per un complesso di ragioni che non è il caso di ricordare, il Ministro mi disse che non era convinto. Allora gli annunciai le mie dimissioni, perché non mi veniva confermata la fiducia con la quale avevo lavorato, anche con la partecipazione a convegni e con dichiarazioni alla stampa. Dopo mezz’ora il Ministro mi richiamò e mi disse che si era convinto a firmare.

Non si era mai lavorato tanto, per la questione del rinnovamento dell’educazione civica, come in quel periodo. Al termine dei lavori il Ministro firmò la Direttiva 8.2.1996 n. 58, con l’allegato documento Nuove dimensioni formative, educazione civica e cultura costituzionale; ma non si fece a tempo a varare i programmi, nonostante il parere positivo del CNPI, perché cadde il Governo Dini. Ma quel documento c’è negli atti ufficiali della Pubblica Istruzione e sul Bollettino della Gazzetta ufficiale, e non è solo un articolo di rivista.

Con la maratona di quei mesi per me indimenticabili ho raggiunto solo parzialmente l’obiettivo, ma non mi sono sentito sconfitto. Anzi. L’allora presidente della Camera Luciano Violante, per un libro da lui curato sulla lotta alla mafia, chiese a Lombardi un contributo sul lavoro fatto dal nostro Ministero alla formazione dei giovani alla legalità. Lui scrisse alcune pagine convinte, in difesa delle scelte che avevamo fatto e pubblicò intermente su quel libro il documento allegato alla direttiva 58, che evidentemente apprezzava, ma rispetto al quale qualcuno, non so chi, dev’essersi messo per traverso.

Veniamo all’ultimo capitolo della telenovela, tralasciando per brevità le vicende vissute, con analoghe commissioni, nel periodo del ministro Moratti e in quello del ministro Fioroni.

Anche qui citerò da una lettera inviata al ministro Mariastella Gelmini pochi mesi dopo il suo insediamento alla Minerva.

 

La proposta programmatica al ministro Gelmini

“Onorevole Ministro, non molti sanno che in sede di Assemblea Costituente (22.12.1947) fu votato all’unanimità, con vivi prolungati applausi, un ordine del giorno presentato da Aldo Moro e altri, in cui si chiedeva “che la nuova Carta Costituzionale trovi senza indugio adeguato posto nel quadro didattico nella scuola di ogni ordine e grado, al fine di rendere consapevole la giovane generazione delle conquiste morali e sociali che costituiscono ormai sicuro retaggio del popolo italiano”.

In realtà ci fu un indugio di oltre 10 anni, fino a quando lo stesso Moro, divenuto ministro della PI, poté introdurre l”insegnamento dell’educazione civica nelle scuole secondarie di ogni ordine e grado, con dpr 13.6.1958, n.585.

A mettere in moto la macchina ministeriale in proposito era stato il convegno promosso dall’UCIIM a Catania, nel Castello Ursino, nel 1957. Furono in particolare i contatti intervenuti nel convegno fra Gesualdo Nosengo e l’on. Domenico Magrì, come mi ha testimoniato Giovanni Gozzer, che fu fra i relatori, a preparare il terreno in ambito ministeriale e a facilitare la decisione del ministro Moro, in merito alla predisposizione del dpr citato.

(….) Se la Costituzione, all’alba dei suoi sessant’anni, è il “tesoro nascosto” della nostra convivenza civile, il tesoro che legittima la scuola e la funzione docente non come istituzioni marginali, ma come “produttrici” di repubblica, occorre il coraggio di ripensare la Costituzione non come appendice facoltativa o come rituale richiamo delle premesse alle norme della scuola, ma come criterio guida per legiferare, per amministrare, per educare.

Nell’insegnamento questo tesoro ci offre un menu di principi, valori, diritti, doveri (in senso informatico), che possono validamente rispondere alle emergenze e alle miserie che affliggono la nostra vita sociale, a cominciare dalla vita della scuola.

Le “carte di navigazione” da sole non ci garantiscono un viaggio sicuro, se il mare è in tempesta. Per questo sarebbe importante che le norme prevedessero anche un’adeguata “cabina di pilotaggio”, in cui il capitano possa ragionare con i suoi colleghi ufficiali, raccogliendo dati e formulando ipotesi e decisioni appropriate. Fuor di metafora, occorre uno specifico tempo scuola, per consentire a un docente, sia egli di storia, di geografia, di filosofia o di diritto, di sviluppare con perizia didattica l’insegnamento e l’apprendimento della Costituzione come disciplina autonoma e di trovare intese con i colleghi, perché ciascuno concorra, come educatore e come titolare della sua disciplina, a quell’educazione civica, che la citata commissione (insediata da Fioroni e presieduta dal direttore Dutto e per sua delega dal sottoscritto) ha chiamato “educazione alla cittadinanza e cultura costituzionale”.

Queste idee e queste proposte sono state sviluppate nel documento Legalità e cittadinanza, elaborato dalla citata commissione ministeriale e pubblicato nel volume Scuola e legalità, del MPI, (Roma maggio 2007, da p. 129 a 139). Si spera che la proposta venga rimessa da qualcuno sul Suo tavolo sgombro, onorevole Ministro.

Fare bene scuola, in clima di autonomia, non significa insegnare tutto quello che è desiderabile, in modo esplicito, e neppure confinarlo nel libro dei sogni, ma tenere in vista e attivare, in classe e nelle assemblee, quei “discorsi” e quelle “attività” che rispondono a bisogni che via via si manifestano nella vita scolastica, in riferimento alla formula illuminante della dignità umana, dei doveri e dei diritti che la Costituzione riconosce e richiede come condizioni per non ricadere nella dittatura e nella guerra”. Luciano Corradini

Ho descritto altrove le tappe incerte del lavoro che ne seguì, dalla nomina del sottoscritto a presidente di una commissione per l’educazione civica, al disegno di legge, abbandonato per farne un decreto legge, poi convertito in legge 169/2008, al Documento d’indirizzo per la sperimentazione dell’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione nella scuola del primo e del secondo ciclo, alla scomparsa del nome e di uno spazio curricolare definito per questa novità legislativa. Rinvio per questo all’articolo uscito su La Scuola e l’Uomo, 2010, pp.246-249 (Cittadinanza e Costituzione: tornare alle origini per avanzare).

Sullo stesso tema rinvio al volume da me curato Cittadinanza e Costituzione  Disciplinarità e trasversalità alla prova della sperimentazione nazionale, Una guida teorico-pratica per docenti, Tecnodid, Napoli 2009. Per una documentazione di carattere bio-bibliografico, rinvio al sito www.lucianocorradini.it). La mia breve cavalcata dal Risorgimento a questa nuova legge, collocata come il seme di un fiore lasciato crescere fra i sassi dei muri a secco, finisce qui. Dove comincia il lavoro dei colleghi che queste cose non solo le ricordano, ma le programmano e cercano di farle.